Archivio dell'autore: rosanna

Trieste per gioco…1 mappa…100 mappe della città

Il mega-gioco si apre alle parole dei bambini.. centro e periferia, luoghi dedicati al gioco, il proprio quartiere, urbanizzazione e inquinamento

il mega-gioco come dispositivo che si apre a nuove rappresentazioni dei bambini dei luoghi familiari o immaginari…

una città nuova, diversa…una… Trieste per gioco!

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Trieste per gioco – Atelier in Città 2014

negli spazi pubblici della città, su una plancia di gioco in materiale plastico e calpestabile, i bambini intervengono con segni e colore OLYMPUS DIGITAL CAMERA OLYMPUS DIGITAL CAMERA

“Vite sul trapezio”

about

“…dove la voglia di fare bene

spesso supera quella di fare carriera,

dove non si rinuncia ai figli e agli amori…

insomma vite sul trapezio…”

Luisa Muraro

Trieste,la città in cui non sono nata e da cui mi sono allontanata senza traumi da sradicamento. Ritorno ed incontro mia madre, ancora una volta: lei in primo luogo, ha la precedenza.

Francesca, Alessio, Nico, Giorgio: incontri e relazioni che non chiedono tante parole ma semplicemente ri-trovarsi.

Cerco un lavoro e le cose capitano e io le lascio capitare.

Così ho iniziato a lavorare insieme ai bambini e alle bambine. Ho incontrato i loro corpi,ho imparato ad osservare i loro movimenti, a riconoscere i loro bisogni e il loro desiderio di conoscere. Questo “lavoro” iniziale di osservazione è stata una grande esperienza, dove ho capito quanto l’adulto è contenuto nella relazione e quanto, per trasformare questa esperienza in competenza professionale, avrei dovuto non dimenticarlo mai.

Si trattava oltre che di competenze anche di garantire un contesto partendo dal presente chiedendosi sempre “vediamo cosa possiamo fare insieme”.

Il “fare” cose insieme presupponeva quindi competenze, lavoro di gruppo ed uno spazio fisico adeguati.

Si impara da subito quanto sia importante riconoscere che il bambino provoca, rilassa, eccita e quanto tutto questo si senta anche con il corpo. Riconosciamo la fatica, la

tensione, il rifiuto, il distacco, la capacità di contenere ed accogliere e stabilire quella“buona distanza” che ci permette di essere accanto al bambino capaci di sentire e di osservare in una condizione di “attenzione fluttuante”.

Il coinvolgimento esiste: il bambino ti immischia nelle sue scoperte che sono state e

sono anche le tue, nel suo movimento, nel suo silenzio, nella sua tristezza, nella sua felicità. Non ha mezze misure e questo può disorientare. Ecco dunque la necessità di impegnarsi in un percorso di formazione e supervisione delle dinamiche attive nella relazione con il bambino.

Si può forse affermare che questa esperienza professionale può avere “esiti terapeutici” o nel caso contrario una “fuga a gambe levate”.

Il lavoro di formazione inteso dunque come la capacità di mettere in gioco i propri

sentimenti e il proprio pensiero su di essi, la capacità di entrare in sintonia, di identificarsi (nel senso di fare posto a), di agire in modo comunicativo. Questa formazione avviene in larga misura nel corso dell’esperienza: nel vivo e con il corpo.

Il bambino arriva all’asilo e ci “parla” di sé attraverso i suoi movimenti, il suo stare fermo, ridere, urlare, morsicare, toccare. La sua individualità incontra uno spazio vivo (coetanei, figure adulte di riferimento, attività, materiali) a sua disposizione in cui può sperimentare, scoprire, transitare dal suo mondo interno a quello esterno.

L’asilo nido dunque come contesto educativo per fare esperienza di sé nel mondo, soddisfare tutto il bisogno di conoscere e di costruire/organizzare in modo attivo la propria identità.

Il lavoro di gruppo delle educatrici rimanda anche al senso del lavoro con i diversi gruppi di bambini che con la loro individualità creano a dinamiche gruppali ricche di significato e molto originali.

Che cosa dunque mi è capitato? Un coinvolgimento personale, un profondo interesse nel lavoro quotidiano con i bambini e le donne che hanno condiviso con me questa esperienza umana e professionale che sto ancora percorrendo.

Voglio ancora raccontare che accanto a questa “parte calda” dell’esperienza ho vissuto e condiviso con altre donne la “parte fredda” del fare impresa, partendo da un desiderio. Si trattava di trovare uno spazio, denari, distribuire responsabilità e costruire alleanze. Questa parte ci ha fatto sentire, a tratti, come quelle donne immigrate di paesi di altre culture che devono imparare quasi tutto, e al tempo stesso, lottare per non perdere se stesse, i propri desideri. Il lavoro da fare era tanto ma piaceva, bisognava imparare a chiedere e negoziare, insomma a costruire anche un abito mentale che ci disponesse ad agire per il meglio e per loro: i bambini e le bambine.

tratto da

http://www.2001agsoc.it/materiale/sconfinamenti/Sconfinamenti.N9.pdf